La scodella ghiacciata
Bosconero, maggio 1821. Il bambino che portava in grembo scalciò irrequieto e Ginèt, sobbalzando, posò il fuso col quale stava filando la “rista” per appoggiare le mani su quel ventre ogni giorno più ingombrante. L’inverno era finito da un pezzo, ma le interminabili “piovere” di quel maggio obbligavano le due famiglie a riunirsi ancora all’interno della stalla, per cercare di togliersi di dosso tutta quell’umidità che penetrava fin nelle ossa. Ginèt era convinta che non sarebbe mai riuscita ad adattarsi al clima “dla bassa”, per dirla come la gente del suo paese. Era nata a Ronco, in Val Soana, in una modesta casupola immersa tra i castagni, nelle vicinanze del torrente. Pensando con nostalgia al suo paesino vide passare davanti ai suoi occhi vivide immagini della sua fanciullezza: le estati trascorse a raccogliere mirtilli, tra il profumo degli abeti; i lunghi pomeriggi trascorsi sui prati quando, mentre la sua Bianchina pascolava, ella se ne stava col naso all’insù ad osservare quel cielo terso; le nuvole, correndo veloci, assumevano le forme più strane: un cavallo con la carrozza si trasformava presto nel muso di un cane oppure assumeva forme umane. Strano come ripensando a quel luogo Ginèt ricordasse solamente le cose belle, dimenticando per esempio la miseria in cui viveva gran parte della gente lassù, in quelle piccole vecchie case dai tetti grigi, sorte su una povera terra che offriva poche possibilità. Anche Ginèt, come ogni ragazza da marito, aveva posto la tradizionale scodella piena d’acqua fuori dall’uscio, la notte dell’Epifania: la mattina seguente aveva osservato con stupore i disegni che il ghiaccio aveva formato; essi predicevano un ricco matrimonio, ma Ginèt non si faceva illusioni. La sua famiglia era povera e Luìs, il ragazzo che ella amava da sempre, avendo condiviso con lui tutta la fanciullezza, era orfano e non possedeva altro che la buona volontà. Ed era proprio con lui che si era sposata, diciassette anni orsono, decidendo subito dopo di trasferirsi in pianura, dove il lavoro non mancava. Bepìn, il “magnìn”, li aveva indirizzati a Bosconero, in una cascina in cui viveva già da anni una famiglia di mezzadri: lì anch’essi avevano stipulato un contratto di mezzadria con il ricco possidente dell’enorme casa colonica, occupandone due piccole stanzette. Ora Luìs se ne stava con gli altri uomini sulla porta della stalla, osservando con preoccupazione tutta quell’acqua che scrosciando dal cielo formava tanti rivoletti; questi si riunivano nel punto più basso dell’aia, vicino al cancello, per poi inondare il sentiero all’esterno. “Speroma ch’a chita për San Medard!” aveva borbottato Ceco. Anche Ginèt aveva imparato a sue spese il vecchio proverbio per cui “Sa piò a San Medard, për quaranta dì na pija part”: era successo due volte negli anni addietro che, essendo piovuto l’ 8 giugno, giorno di San Medardo, frequenti temporali nei quaranta giorni successivi avevano reso molto problematica la fienagione. Come avevano “tribulato” in quegli anni! Non facevano in tempo a “spanciar ël fen” che grossi nuvoloni minacciosi coprivano il cielo, obbligandoli a rastrellare tutto in fretta e furia. Un giorno Ginèt era arrivata a casa fradicia e si era presa una polmonite, che l’aveva costretta a letto per molti giorni. Per fortuna la sua costituzione robusta l’aveva salvata; ma la sua guarigione era avvenuta anche grazie alla Lena, “la mare granda”, che in quei giorni l’aveva accudita e coccolata come se fosse stata sua figlia. Maddalena, chiamata da tutti Lena, era la moglie di Minòt, l’anziano mezzadro dell’altra famiglia che condivideva con loro la grande casa colonica. Sin da quando erano giunti a Bosconero i due sposini avevano trovato in Lena e Minòt due genitori adottivi, che li avevano generosamente aiutati ad inserirsi nella vita di cascina, insegnando loro tutti i “segreti del mestiere”, fatti soprattutto di piccoli accorgimenti, di antichi proverbi e di astronomia spicciola. Ginèt appoggiò la schiena contro la ruvida parete della stalla, sollevando i piedi gonfi sul vecchio panchetto di legno. Sentiva addosso una stanchezza infinita: da diverse notti non riusciva a prender sonno, girandosi e rigirandosi su quel pagliericcio le cui foglie di “melja” scricchiolavano ad ogni movimento, senza trovare una posizione comoda. Quelle ultime settimane di gravidanza sembravano infinite. Continuando ad accarezzarsi il ventre si chiese ancora una volta se il nascituro sarebbe stato maschio o femmina. Tutte le donne le dicevano che era un maschio, per via della pancia “a punta”, ma ella sperava che fosse un’altra bimba come Lucia, la sua piccola di tre anni che ora era accucciata tra i suoi fratelli Beppe e Nino; erano tutti intenti ad ascoltar Minòt, che aveva appena iniziato a raccontare un’affascinante storia, di quelle che solo lui era in grado di narrare così bene. Ginèt aveva già ascoltato un migliaio di volte quella storia che parlava di una ragazza vissuta a Bosconero molti anni prima, e sorrise del fatto che ogni volta che Minòt la raccontava, questa si arricchiva di particolari e sfumature leggendarie partorite dalla fervida fantasia dell’anziano contadino. Ginèt osservò poi l’altro suo figlio, il maggiore, che se ne stava in disparte intagliando silenziosamente un pezzo di legno. Menico si sentiva ormai troppo grande per unirsi allo stuolo di bambini che ascoltavano stupiti ed un po’ impauriti quelle lunghe storie di streghe, di guerre, di amori e di morti. E nello stesso tempo non era ancora abbastanza adulto da poter intervenire nei discorsi degli uomini, che ora stavano discutendo fra loro a proposito di alcuni campi del padrone che si trovavano nei pressi dell’Orco e che rischiavano l’inondazione. Guardando con odio quella pioggia insistente Ginèt si arrabbiò in silenzio contro quel cielo, colpevole di tanti disastri. Tutta la loro vita sembrava una continua lotta contro le bizzarrie del tempo, che fossero esse pioggia, siccità o tempeste. Non avrebbe mai dimenticato quell’estate di sei anni prima: era il 1815 – lo ricordava perché a febbraio di quell’anno era nato Nino – quando una siccità spaventosa si era prolungata impietosamente per gran parte della primavera e per tutta l’estate. I campi mostravano dappertutto grosse crepe nel terreno argilloso, reso duro come